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- Tesine : : : Dal Secondo Dopoguerra all'Unione Europea

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La letteratura del secondo dopoguerra

IL NEOREALISMO
La seconda guerra mondiale, la lotta di liberazione contro il fascismo e l’occupazione tedesca hanno costituito una profonda frattura storica che ha investito e sconvolto fino alle radici il volto della società e della cultura italiana.
Il movimento artistico che più direttamente ha cercato di riflettere tale nuova situazione storica è stato il neorealismo che, sorto sulla base di esperienza che già andavano maturando, fra il 1930 e il 1940, si afferma in modo particolare nel decennio compreso fra il 1940 e il 1950.
Il neorealismo si nutrì, innanzitutto, di un nuovo modo di guardare il mondo, di una morale e di una ideologia nuove che erano proprie della vecchia classe dirigente e del posto che, per la prima volta nella storia, si erano conquistate sulla scena della società civile le masse popolari. Vi era l’esigenza della scoperta dell’Italia reale, nella sua arretratezza, nella sua miseria, nelle sue assurde contraddizioni e insieme una fiducia schietta e rivoluzionaria nelle nostre possibilità di rinnovamento e nel progresso dell’intera umanità. Il tono poteva variare dall’epico al narrativo o al lirico, ma la posizione ideale rimaneva la stessa.
È evidente che un movimento di questo tipo si presentava come un autentico movimento di avanguardia, rispetto ad altre cosiddette “avanguardie” che avevano proposto riforme soltanto formali, che non rompevano il cerchio della cultura della classe dominante, e che, qualche volta, compivano rivoluzioni canonizzate nell’Accademia d’Italia. Autentica avanguardia, perché tendeva a riflettere i punti di vista, le esigenze, le denunce, la morale di un nuovo movimento rivoluzionario reale e non soltanto culturale. E dell’avanguardia il neorealismo ebbe il piglio aggressivo e polemico, la volontà di caratterizzarsi e di distinguersi nettamente dalla cultura tradizionale, accademica, arretrata, staccata dalla realtà. Si presentò così come arte impegnata contro l’arte che tendeva ad eludere i problemi reali del nostro Paese; contrappose polemicamente nuovi contenuti (partigiani, operai, scioperi, bombardamenti, fucilazioni, occupazione di terre, baraccati, sciuscià), all’arte della pura forma e della morbida memoria (ma non fece mai, almeno nei migliori, di questi contenuti una precettistica); cercò un mutamento radicale delle forme espressive che sottolineasse la rottura con l’arte precedente e potesse esprimere più adeguatamente i nuovi sentimenti; si pose il problema di una tradizione di arte autenticamente realistica e rivoluzionaria a cui riferirsi, scavalcando le esperienze decadenti dell’arte moderna.
Naturalmente un simile processo avvenne in modi e in tempi diversi a seconda del carattere specifico delle varie arti. Nel cinema, il processo fu più rapido: non solo perché era un’arte giovane e non doveva, di conseguenza, far troppi conti con una tradizione culturale e impegnare troppe energie nell’opera di abbattere il vecchio per costruire il nuovo, ma anche perché il nuovo era stato già in parte preparato – negli stessi anni del fascismo – attraverso l’assorbimento delle esperienze del cinema naturalista francese, attraverso l’attività critica svolta da alcuni gruppi di futuri cineasti, e soprattutto attraverso le opere teoriche di Pudovkin e di Eisenstein – testi di studio al Centro Sperimentale di Cinematografia – nelle quali i giovani trovavano già formulate le idee fondamentali del realismo cinematografico. Come giustamente osserva un noto critico “dietro le enunciazioni di Pudovkin e di Eisenstein apparentemente teoriche e formali, era ben chiara ed avvertibile l’esigenza morale e politica che le determinava: la tesi come asse ideologico del film, il montaggio in funzione dialettica e come struttura, il cinema senza attori, la stessa classificazione delle inquadrature dal punto di vista espressivo (il tiranno s’inquadra dal basso, la vittima dall’alto) costituivano una sollecitazione a considerare il film come un mezzo di lotta ideologica attraverso penetrazione della realtà”. Il cinema fu, quindi, l’arte più pronta ad esprimere la rivoluzione operatasi in quegli anni, l’arte più evidentemente impegnata in cui con maggiore chiarezza – e con risultati qualitativi di prim’ordine – si manifestava l’ansia di ricerca, di scoperta, di rinnovamento. E fu il cinema che fece più tendenza. Nonostante la diversità dei singoli temperamenti artistici, quell’impegno ideale comune creava un legame profondo che univa – nonostante tutto – la raffinatezza di Visconti, al limite dell’estetismo, con l’emotività di De Sica, il cronachismo di Zavattini o l’epica del primo Rossellini.
Non stupisca quest’accenno al cinema, perché nel movimento neorealista esso ebbe una funzione dirigente ed esercitò una notevole influenza sulla letteratura. La quale, per altro, si mosse in modo più lento e complesso. In questo campo il movimento realistico si trovò ad affrontare difficoltà formidabili. In primo luogo l’acquisizione dei nuovi contenuti che, per le caratteristiche stesse della letteratura, non bastava riconoscere o determinare visivamente, ma era necessario penetrare con un’analisi di carattere storico o strutturale: pena un inevitabile cronachismo. In secondo luogo la conquista di un punto di vista narrativo che permettesse di riflettere la realtà nel suo movimento e non la cristallizzasse in forme liriche, quelle forme che pure costituivano l’esperienza più diffusa della letteratura sotto il fascismo. Infine la conquista di un linguaggio nuovo, non letterario, ma nemmeno individuale o da laboratorio, che corrispondesse all’urgenza dei nuovi valori umani e sociali. La costruzione di questo nuovo linguaggio puntò in primo luogo sull’innesto dei dialetti nella lingua nazionale, accompagnando e favorendo quel processo di rivalutazione delle culture regionali che il fascismo aveva mortificato. Il ritorno alle regioni (già avviato, come si è visto, in epoca fascista sia da scrittori antifascisti quali Pavese e Vittoriani, sia dagli intellettuali strapaesani) e il dialetto, se aveva una “forza centrifuga rispetto all’idea di Stato e di patria, idee ancora troppo relazionabili ai fantasmi del fascismo” (corti), tendeva anche ad esaltare quel ruolo di protagonista che le classi popolari, ormai in possesso di una coscienza maturata nel corso della lotta di liberazione, si erano conquistate. In questo senso il dialetto era in gran parte superato sia come riflesso di una concezione del mondo (delle classi popolari in quanto protagoniste della storia), sia come riserva linguistica in funzione antiletteraria (per l’estendersi di un’area linguistica nazionale, comune a larga parte dei parlanti).
Perciò il neorealismo si mosse nella direzione di una reintegrazione linguistica cui i vari dialetti contribuissero con le loro voci storicamente più valide (reintegrazione che sta di fatto avvenendo nella lingua parlata) e, nei casi migliori, evitò le forme gergali, folcloristiche, espressivistiche del dialetto.
La tendenza a costruire un linguaggio narrativo più vicino al dialetto e all’italiano parlato e lontano dalla lingua letteraria era legata, tra l’altro, ad una profonda esigenza di documentazione quanto più possibile oggettiva e concreta. Il racconto neorealista, specialmente quando sia diario, narrazione di memoria, documento, ma anche quando sia racconto di invenzione, è prevalentemente caratterizzato da tematiche legate all’esperienza della guerra, della resistenza al fascismo, dei campi di sterminio nazisti; temi che imponevano, di per sé, la ricerca dell’oggettività, della veridicità dei fatti, della più minuta esattezza documentaria (anche sul piano linguistico) come esigenza morale prima che letteraria.
Per gli scrittori neorealisti, – per quelli che lo erano già come per quelli che lo sarebbero diventati sotto la spinta morale a comunicare agli altri le loro esperienze – raccontare l’esperienza della guerra, dei lager, della Resistenza, per non disperdere la memoria di eventi così drammatici ed eccezionali, fu l’obiettivo perseguito con maggiore impegno. Come scrive Primo Levi nella Prefazione a Se questo è un uomo, “il bisogno di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi, aveva assunto fra noi [internati nei campi di sterminio], prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari”. Da questo “bisogno” nasce, in primo luogo, il racconto neorealista, soprattutto quello che si propone come racconto di testimonianza, documento. asterpharmacy.com

Primo Levi
Nato a Torino da famiglia ebrea nel 1919 e laureatosi in chimica, nel 1943 si unì ad una banda partigiana affiliata a “Giustizia e Libertà”. Nel dicembre di quello stesso anno venne catturato dalla milizia fascista e internato in un campo italiano, da cui venne poi deportato nel lager di Auschwitz. L’esperienza del lager è raccontata in Se questo è un uomo (1948), una testimonianza sconvolgente nella essenzialità della cronaca e nella precisione con cui l’autore registra non solo la vita del campo e la pena fisica degli internati, ma anche il processo di distruzione psichica e morale degli individui. “Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere, non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.” Così è scritto nel penultimo capitolo del libro, ma la distruzione, lo svuotamento dell’uomo comincia fin dal primo giorno di lager.

“SE QUESTO È UN UOMO”
"Se questo è un uomo" è un libro scritto e interpretato da Primo Levi, iniziato durante la sua prigionia mentre la seconda guerra mondiale devastava il mondo e faceva migliaia di vittime. Questo libro non è solo un racconto classico, ma è soprattutto il documento più sincero possibile sulla storia dei Lager.
Primo Levi venne catturato dalla milizia fascista alla fine del 1943 e avviato nel campo di concentramento di Carpi-Fòssoli. Essendo ebreo, oltre che partigiano, nel febbraio del 1944 il campo di Fòssoli viene preso in gestione dai tedeschi e Levi fu consegnato ai nazisti che lo deportarono ad Auschwitz su un convoglio ferroviario assieme ad altri prigionieri, tra cui vecchi, donne e bambini. Il viaggio dura cinque giorni. All'arrivo gli uomini vengono divisi dalle donne e dai bambini, Levi e gli altri 95 uomini validi vennero presi e messi su un autocarro e portati nel campo di lavoro di Monowits, la Buna, e così dopo una ventina di minuti di viaggio ecco che appare una grande porta con sopra la scritta "IL LAVORO RENDE LIBERI". Una volta scesi e fatti entrare in una stanza fredda e buia inizia per loro il vero inferno. Vennero spogliati, rasati e tosati, lasciati in piedi, lavati, disinfettati e marchiati con un numero sul braccio sinistro, un numero che alla Buna dice tutto, perché è il loro nome e il loro destino, il numero di Primo Levi è 174-517, e sa già che è un Häftling, che non ispira a niente di buono. Di seguito vennero assegnati a dei Kommando, Levi venne inviato al Block 30, dove conobbe alcuni compagni tra cui Null Achtzehn (018 le ultime tre cifre del suo numero), Levi aveva come compito trasportare supporti di ghisa dalla ferrovia al magazzino, compiendo un centinaio di metri di suolo in disgelo a piedi.
Levi ebbe modo di conoscere il Ka-Be, ovvero l'infermeria, a causa di una ferita al piede provocata durante il suo lavoro, nessuno poteva stare più di due mesi nel Ka-Be, entro il quale si era tenuto guarire o morire, Levi vi soggiornò venti giorni. La vita nel Ka-Be è una vita di limbo, non fa freddo, non si lavora e non si viene percossi, ma il momento più critico avviene con le selezioni, quando le SS entrano nella baracca e iniziano a fare controlli e scegliere i malati più gravi. La loro destinazione? forse la camera a gas o addirittura il forno crematorio. Dopo la vita in Ka-Be Levi venne assegnato al Block 45 e inizia per lui un nuovo capitolo di tortura.
In seguito Levi imparò anche a cavarsela nel commercio, perché in Buna vi è un grande traffico di merci, le cosiddette merci di sussistenza, non solo oggetti come pezze o cucchiai ma anche razioni di pane e gamelle di zuppa. E venne finalmente il momento in cui per Levi poteva esserci uno spiraglio, poteva contare sul nuovissimo Kommando 98, detto Kommando Chimico, pochi giorni dopo dalla sua creazione venne indetto un esame di chimica a cui Levi partecipò con esito positivo.
Levi attribuisce la sua sopravvivenza ad una serie di circostanze fortunate. La sua conoscenza sufficientemente estesa del tedesco gli permise di comprendere gli ordini dei suoi aguzzini. Ma la sua più grande fortuna fu che il governo tedesco data la crescente scarsità di manodopera, stabilì di prolungare la vita media dei prigionieri da eliminare. La sua laurea in chimica fece il resto, certo non gli venne risparmiato offesa, umiliazione, dolore e fatica, ma gli consentì a un certo punto di disporre di matita e quaderno e di qualche ora di solitudine per ripassare i metodi analitici.
E così iniziò a scrivere questo libro, era talmente forte il bisogno di raccontare, che aveva incominciato a scriverlo là, in un laboratorio tedesco pieno di gelo e di sguardi indiscreti, benché sapesse che non avrebbe potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio e che avrebbe dovuto buttarli via subito, perché se gli fossero stati trovati addosso gli sarebbero costati la vita. Ma riscrisse tutto non appena fu arrivato in patria, nel giro di pochi mesi, perché tanto quei ricordi gli bruciavano ancora dentro.
Per tutta la durata della permanenza in Lager, Levi riesce a non ammalarsi, ma contrae la scarlattina proprio quando nel gennaio 1945 i tedeschi, sotto l'avvicinarsi delle truppe russe, evacuano il campo, abbandonando gli ammalati al loro destino. Gli altri prigionieri vengono rideportati verso Buchenwald e Mauthausen e muoiono quasi tutti. "Se questo è un uomo" finisce con il racconto degli ultimi dieci giorni di Lager e con l'inizio de "La tregua", l'incessante attesa dell'Armata Rossa e il meritato ritorno in patria.



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