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Premessa
Tra le espressioni del rinascimento maturo e quelle della civiltà della Maniera, le personalità di Correggio e Parmigianino si situano quasi a margine di questi grandi fenomeni.
Nella loro diversità i due artisti rappresentano un approccio alternativo agli eventi portanti della prima fase del secolo, come il classicismo raffaellesco e il tonalismo veneto, fino alle "sforzature" manieriste. Pur essendo, queste, al contempo premesse e sviluppi della formazione dei due emiliani.
Benché i due autori siano orientati in sensi spesso opposti, è possibile affermare che esiste un filo rosso che va oltre la formazione di Parmigianino presso il Correggio. Gli storici hanno infatti parlato per entrambi di uno "specifico emiliano" (Briganti, Riccomini), costituito da un forte senso naturalistico, e dalla preferenza per una pittura densa e corposa, tesa a restituire gli effetti ottici del reale o a caricare gli accenti sentimentali delle figure rappresentate. In questa prospettiva, l’apporto di Correggio e Parmigianino costituisce una sorta di premessa fondamentale allo sviluppo dell’arte dei tre Carracci che proprio a Parma effettuano forse il più importante dei loro viaggi di studio.
Gli anni giovanili di Correggio
Antonio Allegri nasce a Correggio (da cui il soprannome) nel 1489; della sua prima attività si sa poco: è certa la sua formazione mantovana nella bottega del Mantegna, dove apprende al miglior livello la scienza prospettica e illusionistica. Tra le sue prime opere, la Natività con i santi Elisabetta e Giovannino (1512; Milano, Pinacoteca di Brera) dimostra la sua enorme capacità di assimilazione di moduli diversificati: dal classicismo sentimentale emiliano di Lorenzo Costa (a Mantova dal 1506) al naturalismo giorgionesco, fino allo sfumato di Leonardo.
Ma l’esperienza fondamentale per il Correggio è l’incontro con l’arte romana di quegli anni: tra il 1512 e il 1516 giungono in Emilia due opere fondamentali di Raffaello, la Madonna Sistina a Piacenza e la Santa Cecilia a Bologna. Soprattutto la prima pare aver lasciato in Correggio tracce indelebili nella proposta di articolare la rappresentazione dello spazio sacro come un’apparizione sorprendente. Davanti a queste opere matura l’esigenza del viaggio di aggiornamento a Roma; non abbiamo tracce documentarie sicure, ma gli affreschi della Camera di San Paolo, eseguiti nel 1519, lasciano credere che il pellegrinaggio" romano debba svolgersi entro il 1518. A Roma Correggio trova una città in pieno fermento artistico: Raffaello ha già realizzato buona parte delle Stanze, da tempo è visibile la volta della Cappella Sistina, mentre le continue scoperte archeologiche segnano la nascita di una volontà filologica fino ad allora sconosciuta.
Le impressioni di questo viaggio vengono "tradotte" in immagini negli affreschi della Camera della Badessa Giovanna Piacenza nel convento di San Paolo a Parma. Ispirata al mito di Diana, l’articolata iconografia è dettata dalla stessa committen-. te, ma la realizzazione tesa a riprendere gli aspetti più ludici dell’antico sono senz’altro un omaggio dell’artista al Raffaello della Farnesina. La stanza è concepita come un organismo unitario illusorio, dove da una trabeazione si sviluppano prima delle lunette con sculture, poi un pergolato a spicchi che investe la volta; all’interno di questi spicchi si aprono degli ovali a cielo aperto, dove dei putti giocano tra loro: il tutto è simulato dal pennello di Correggio al fine di realizzare una classicità "evocata ma non citata" (Riccomini). Stilisticamente, il salto compiuto è notevole: dalle rigidità mantegnesche, Correggio approda a una varietà di forme impressionante e nello stesso tempo a una nuova morbidezza pittorica che il viaggio romano spiega solo in parte. canadadrugpharmacy.com
La grande decorazione sacra di Correggio
Un anno dopo, sempre a Parma, l’artista riceve l’incarico di decorare la cupola di San Giovanni Evangelista; il tema da raffigurare è la visione dell’Evangelista a Patmos. Correggio risolve questo incarico con un’invenzione destinata a essere ripresa a lungo: rappresenta infatti il santo in basso, a mezza figura, ancorato alla cornice della cupola (costruita senza lanterna), mentre osserva stupefatto i dodici apostoli disposti in circolo su delle morbide nuvole, quasi a incorniciare la figura di Cristo che si libra in una luce irreale al centro della composizione.
Qui tutte le più recenti ricerche artistiche si fondono: la monumentalità di Michelangelo, la morbidezza pittorica di Tiziano, la "rappresentazione come epifania" di Raffaello. Non è un caso che la grande decorazione barocca, tramite il parmense Lanfranco, trovi proprio in Correggio una premessa assolutamente fondamentale per la rappresentazione dello spazio come un continuo fluido.
Nella prima metà degli anni ’20 prosegue la decorazione anche nella zona absidale (persa già alla fine del secolo), non tralasciando di realizzare altri intensi dipinti come il Martirio di quattro santi (Parma, Pinacoteca Nazionale), testimonianza di una continua ricerca pittorica tra dinamismo ed espressività.
Tra il 1526 e il 1530 Correggio si dedica a un altro prestigioso incarico: la decorazione della cupola del duomo di Parma. Le premesse della decorazione in San Giovanni sono portate alle estreme conseguenze: si tratta di una vera e propria macchina pittorica teatrale, dove il tema dell’Assunzione della Vergine quasi si stenta a riconoscere. La Madonna è infatti raffigurata in prospettiva dal basso, in modo assolutamente ardito, circondata da una luce intensa. Attorno ad essa, quasi in un movimento elicoidale, una vera e propria folla di santi, apostoli e angeli amplificano l’evento. Le notevoli dimensioni della cupola non paiono aver creato difficoltà al pittore che realizza l’opera dopo aver studiato attentamente gli effetti prospettici cromatici che l’intera composizione comporta vista dal basso. Ancora una volta, Correggio pare bruciare le tappe della storia: la concezione dello spazio infinito, propria della pittura barocca, trova in quest’opera un indubbio elemento fondante.
I dipinti sacri e profani di Correggio
Accanto alla monumentale attività di decoratore, Correggio intraprende una fervida attività di pittore da cavalletto. In quest’ambito, non meno che nelle cupola di San Giovanni Evangelista e in quella del duomo di Parma, prosegue la sua personale sperimentazione nella rappresentazione dei moti dell’anima e degli affetti.
In opere come la Madonna di san Gerolamo (1527-1528; Parma, Galleria Nazionale) il tema sacro diviene un vero e proprio gioco dei sentimenti; basti guardare il gesto della Maddalena che abbraccia teneramente la gamba di Gesù Bambino. O ancora, per fare un altro esempio, nella Madonna della scodella (eseguito entro il 1530; Parma, Galleria Nazionale) l’artista lega sensazioni intimiste a un fare pittorico più ricco e corposo sull’esempio del Tiziano dei Baccanali.
Così, attorno al 1530, a quattro anni dalla morte, Correggio esegue una serie impressionante di capolavori, tutti uniti da un progressivo affinamento dei mezzi pittorici, finalizzati a restituire il dato naturale nei forti contrasti tra fonti di luce, come nel caso della celebre Notte (Dresda, Gemäldegalerie). La delicatezza della sua pittura arriva ai vertici in alcuni dipinti eseguiti per il duca di Mantova Federico II Gonzaga, a cominciare da Giove e Antiope (1528 ca.; Parigi, Louvre), straordinaria manifestazione di sensualità. Concepita in origine come dono per l’imperatore Carlo V da parte del duca, questa tela rappresenta quasi una prima prova per una più impegnativa commissione: la serie degli Amori di Giove che Federico II intende donare all’imperatore in occasione della incoronazione a Bologna del 1530. Con tutta probabilità, Correggio non consegna i dipinti in tempo, ma ne realizza comunque quattro che vanno ad arricchire la collezione del duca mantovano: Danae (ora a Roma, Galleria Borghese), Leda (Berlino, Staatliche Museen), Io e Ganimede (entrambe a Vienna, Kunsthistorisches Museum), dove la tensione naturalistica si scioglie in calibrati contrappunti sottilmente erotici. La raffinatezza generale di queste realizzazioni segna anche l’avvicinamento di Correggio alla stagione della Maniera, seppur con quelle peculiarità di vitale gioia fenomenica tipica dell’autore emiliano.
Guardando alle opere finali, ben si comprende il Vasari che nella Vite descrive i lavori correggeschi esaltandone la "vaghezza" (la "beltà" per dirla col Varchi) che equivale a dire, in termini moderni, la bellezza e l’armonia delle proporzioni, ponendo il primo tassello di quell’idea di Correggio come pittore della bellezza che tanta fortuna godrà in epoca romantica.
La formazione di Parmigianino prima del viaggio romano
Se per Vasari Correggio è il pittore della "vaghezza", Parmigianino è il pittore della "grazia". La parentela tra i due vocaboli indica al contempo l’identità e la differenza tra i due protagonisti dell’arte emiliana.
Questo contatto ha un fondamento storico, essendo Francesco Mazzola (questo il vero nome di Parmigianino, nato appunto a Parma nel 1503), attivo in San Giovanni Evangelista nel 1522 contemporaneamente al Correggio. Il giovane pittore, al servizio della bottega degli zii paterni, si cimenta quindi da subito con uno dei protagonisti del rinnovamento pittorico di inizio Cinquecento. Le opere che gli si riconoscono - la decorazione dei sottarchi delle prime due cappelle a sinistra - mostrano già la sua capacità di comprensione dello stile correggesco, al quale è unita però una caratterizzazione formale derivata da Pordenone (come rivela Sant’Agata e il carnefice della prima cappella).
A vent’anni Parmigianino è un artista già affermato se nel 1523 il conte Galeazzo Sanvitale ne richiede l’opera per decorare la propria rocca gentilizia di Fontanellato presso Parma. Francesco Mazzola esegue la decorazione come un esplicito ripensa mento della Camera di San Paolo di Correggio, dalla quale riprende l’idea della volta come un pergolato scandito da putti festosi, con maggiori intenti illusionistici nella simulazione al centro di un cielo aperto. Anche il tema iconografico è simile: il mito di Diana e Atteone, dalle Metamorfosi di Ovidio, è qui narrato nelle lunette della volta. Affiorano però, pur nella sostanziale omogeneità di stile, i primi segni di allontanamento da Correggio nella quasi esasperata eleganza che contraddistingue le scene mitologiche.
E’ questo un momento di particolare intensità sperimentale, come testimoniano opere come la Circoncisione (Detroit, Museum of Art) o il celeberrimo Autoritratto allo specchio (Vienna, Kunsthistorisches Museum), dipinto su una tavola emisferica per rendere meglio la raffigurazione della propria immagine deformata da un specchio ricurvo. Si tratta di una vera e propria sfida ai canoni tradizionali di rappresentazione, a testimonianza di una predilezione per le forme eleganti e allungate oltre che della capacità di Parmigianino di cimentarsi con i principî stessi della visione.
Il periodo romano di Parmigianino
Parmigianino stesso considera quest’opera talmente esemplare della sua attività che, giunto a Roma nel 1524, decide di farne dono al papa Clemente VII. Il fine è quello di dimostrare al prezioso pontefice, amante delle "cose belle", la propria capacità. Le premesse per un grandioso successo ci sono tutte, l’ambiente romano vede in lui quasi un nuovo Raffaello - come testimonia Vasari - a causa della preziosità della sua pittura. Il papa in persona promette di assegnargli gli affreschi della sala dei Pontefici.
Tanta fama non si traduce però nel successo sperato.
L’ambiente papale con inclinazioni nettamente tosco-romane, preferisce artisti come Giulio Romano, Rosso Fiorentino e Perin del Vaga, escludendolo dalle grandi e prestigiose commissioni. Può sembrare paradossale che pur partecipando marginalmente al gusto della Roma papale, definito da André Chastel "stile clementino", a Parmigianino si debba l’opera simbolo di questa breve età: la Visione di san Girolamo (Londra, National Gallery), commissionata da Maria Bufalina da Città di Castello. Parmigianino vi lavora fervidamente (come testimoniano i numerosi disegni preparatori), articolando la pala come un’esaltazione dell’eleganza, caratterizzata da un sottile gioco di contrappunti compositivi: dal san Giovanni in primo piano, messo teatralmente in posa, alla raffinatezza della Vergine, fino al Gesù Bambino in cui la nozione di grazia, tanto cara alla civiltà della Maniera, trova una vera e propria incarnazione pittorica.
Francesco Mazzola è ancora al lavoro sull’opera, quando i lanzichenecchi entrano a Roma nel 1527. Le conseguenze del Sacco, che pone fine all’età dell’oro clementina, costringono Parmigianino a riparare a Bologna, mentre non abbandona Roma seppure per qualche anno - il suo capolavoro che viene conservato e venerato dagli artisti in Santa Maria della Pace a Roma, inconsapevole simbolo di una sfortunata esperienza.
Parmigianino tra Bologna e Parma
Il delicato equilibrio tra natura e intelletto raggiunto con la Visione di san Girolamo è il principio ispiratore di tutta l’attività bolognese che si protrae fino al 1530. In questo periodo di fecondità straordinaria, Parmigianino realizza disegni e incisioni (è tra i pochi pittori del tempo a praticare direttamente tale disciplina) che saranno importantissimi per la scuola emiliana del Cinque e Seicento.
Realizza poi i numerosi dipinti, sia di ambito privato che pubblico. Le pale d’altare prodotte in questi tre anni lo vedono impegnato a ricercare sostanziali varianti ai temi iconografici tradizionali, come il San Rocco (Bologna, San Petronio), o ad arricchirli con sensuali connotazioni intimiste, come nella Madonna di santa Margherita (Bologna, Pinacoteca Nazionale). E qui l’originario legame con il Correggio sembra riaffiorare (con riferimento alla Madonna di san Girolamo di Parma) nel comune intento di rappresentare il fatto sacro come una manifestazione di tenerezza.
Intensa è anche l’attività sul versante delle opere private; tra queste vi sono capolavori come la Conversione di san Paolo (Vienna, Kunsthistoriches Museum) o come la morbida e vellutata Madonna della Rosa (Dresda, Gemäldegalerie), concepita come un omaggio a Clemente VII, giunto a Bologna per l’incoronazione di Carlo V.
Nel 1531 Parmigianino rientra a Parma, attirato da una prestigiosa commissione, gli affreschi nella chiesa di Santa Maria della Steccata. Pur continuando a mantenere contatti con l’ambiente bolognese (è di questo periodo la Madonna di san Zaccaria, ora agli Uffizi), l’artista comincia a impegnarsi nella realizzazione del progetto studiando la composizione in diversi disegni. Il contratto prevede il completamento della decorazione absidale entro l’anno successivo, ma in realtà i lavori iniziano solo nel 1535 e non saranno mai portati a termine: l’ingegno sperimentale di Mazzola è adesso impegnato in un’attività diversa, una passione giovanile che solo ora trova sfogo adeguato, l’alchimia. A tale disciplina dedica la maggior parte del suo tempo in questi anni. I frati della Steccata, dopo ripetute sollecitazioni e dopo ricorsi legali, sospendono il mandato al pittore nell’aprile del 1539, rivolgendosi a Giulio Romano e a Michelangelo Anselmi. Parmigianino ha infatti realizzato solo un piccola parte del progetto originario, cioè l’arcone del presbiterio, concepito come una decorazione globale che molto deve alla visione dei monumenti antichi (la Domus Aurea su tutti): attorno a una doppia fila di rosoni di rame sbalzato si dipanano festoni di frutta, inquadrati ai lati da piccoli nudi monocromi. All’imposta dell’arco si trovano sei figure femminili (tre per lato), tutte dotate di anfore sulla testa e di lampade (da un lato accese, dall’altro spente). Al di là della complessa iconografia (probabilmente un’allegoria della purezza della Vergine), è possibile riscontrare nel complesso una rinnovata attenzione agli effetti monumentali derivanti da una accorta mistura di decorativismo e grandiosità.
Del periodo parmense è anche il capolavoro di Parmigianino la Madonna dal collo lungo, ora agli Uffizi. Commissionata nel 1534, di questa tela esistono diversi disegni di studio, a testimonianza del continuo fervore intellettuale di Mazzola; un fervore che, come nel caso della Steccata, non produce però un’opera compiuta: essa viene posta in opera solo nel 1542, dopo la morte dell’artista avvenuta nel 1540. Nonostante ciò, si nota una nuova attenzione per una forma più solida e compatta, lontana dalle morbidezze pastose del periodo bolognese; costante è invece l’interesse per la flessuosità offerta dal corpo umano come soggetto della rappresentazione.
Le sfortunate vicende di Parma lo inducono a riparare, quasi in esilio, a Casalmaggiore; qui Parmigianino si spegne a soli 37 anni, non prima di aver realizzato opere come la Madonna col Bambino e i santi Stefano e Giovanni Battista (Dresda, Gemäldegalerie) che si pone clamorosamente controcorrente nella sua fissità arcaizzante e nell’atmosfera sospesa, a testimonianza di un intelletto in continuo movimento, disposto a sperimentare fino all’ultimo.
Bibliografia essenziale
A.C. Quintavalle, L’opera completa del Correggio, introduzione di A. Bevilacqua, Milano, Rizzoli, 1970.
Nell’età del Correggio e dei Carracci, a cura di A. Emiliani, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1986.
M. di Giampaolo, Parmigianino, catalogo completo dei dipinti, Firenze, Cantini, 1991.
C. Gould, Parmigianino, Milano, Leonardo, 1994.
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