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- Materie : : : Lingue Straniere

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1. Introduzione
Prima di parlare in senso stretto delle lingue straniere, facciamo alcune premesse.
In linguistica il termine "linguaggio" indica la facoltà umana di esprimere e comunicare il pensiero attraverso un sistema di simboli auditivi o visivi, mentre “lingua”, benché spesso confuso nell’uso comune con il termine precedente definisce la realizzazione pratica, che varia da cultura a cultura, di quella stessa facoltà attraverso sistemi di segni che uniscono in modo arbitrario significante e significato.
Non appartengono al dominio del linguaggio così inteso né la comunicazione non verbale tra gli uomini né la comunicazione tra gli animali. Al di fuori della disciplina linguistica, tuttavia, il termine "linguaggio" viene applicato anche alle forme di comunicazione create artificialmente, quali l'algebra e i linguaggi di programmazione per i calcolatori.

La comunicazione linguistica e il concetto di codice
Le lingue sono codici arbitrari. Con "codice" si intende un procedimento usato per associare un'espressione (ad esempio il gesto del pugno chiuso con il pollice alzato, fatto al bordo di una strada) con un contenuto (la richiesta di un passaggio in automobile). Nel linguaggio verbale, ai contenuti si associano suoni (vedi Fonetica) o espressioni, ad esempio i suoni che compongono la parola "matita" (la m, la a ecc.) e l'oggetto "matita".
Questa relazione può essere "iconica", quando esiste una somiglianza fra espressione e contenuto, come nei cartelli stradali, in cui le sagome "somigliano" ai pedoni della realtà e alle vetture, o nei cartelli di "vietato fumare" dove si vede una sigaretta sbarrata. Oppure la relazione può essere "arbitraria", quando questa somiglianza non c'è, come in un cartello rosso attraversato da una fascia bianca, a indicare il "divieto di transito". Nelle lingue le parole non "somigliano" alle cose (la parola "pecora" non ricorda in alcun modo la pecora): sono perciò codici arbitrari. Questa proprietà è fondamentale, perché determina l'esistenza di lingue diverse: il nome italiano "pecora" è immotivato rispetto alla cosa quanto il nome inglese sheep o il nome ceco ovce. Inoltre, mentre i codici iconici si devono limitare a esprimere concetti raffigurabili (e quindi cose reali), i codici arbitrari hanno una possibilità di espressione illimitata. avidpromedical.com

Lingua parlata e lingua scritta
Alcuni linguaggi verbali possiedono una forma scritta, che è la trasposizione, con un altro mezzo (visivo invece che auditivo), dell'informazione. I sistemi di scrittura delle lingue possono variare considerevolmente, ma si possono ricondurre a due tipi principali: le scritture che trasmettono direttamente il significato, senza passare per la forma sonora che assume la parola o la frase (come quelle pittografiche e ideografiche) e le scritture sillabiche o alfabetiche, che rispecchiano la forma parlata della lingua, di cui offrono una trascrizione dei suoni. Ad esempio, in cinese esiste un ideogramma diverso per ogni morfema, per cui è possibile, in teoria, capire che cosa è scritto in un testo senza saperlo pronunciare (è quello che succede con i numeri nelle notazioni occidentali: si possono perfettamente capire i significati dei numeri scritti in testi di una lingua che non si conosce, però non si è in grado di "leggerli"). In etiopico, ad esempio, esiste un segno grafico per ogni sillaba della lingua, mentre la maggior parte delle lingue moderne adotta un sistema di scrittura alfabetico, in cui a ogni segno corrisponde un suono. In questo caso si può ricostruire, leggendo, il parlato della lingua, ma non il suo significato, a meno di non conoscerne la grammatica.
La forma scritta di una lingua è spesso statica, resiste ai mutamenti e rispecchia talora la pronuncia o la grammatica di fasi arcaiche. Questo è particolarmente evidente in lingue come il francese o l'inglese, in cui la grafia di una parola rinvia alla pronuncia di molti secoli fa. La lingua parlata e la lingua scritta differiscono anche per ragioni strutturali: nel parlato, la presenza dell'interlocutore permette nel discorso continue spiegazioni, chiarificazioni, ripetizioni; inoltre il mezzo impiegato (la voce) consente l'uso dell'intonazione per rendere più comprensibile il messaggio; infine la comunicazione può essere aiutata da altri fattori, quali la mimica. Anche nello scritto i segni di interpunzione aiutano a seguire l'andamento del discorso, ma molte delle informazioni veicolate dal tono di voce o dall'atteggiamento di chi parla vengono perdute.
La scrittura d'altronde permette una maggiore articolazione del pensiero e una maggiore pianificazione testuale, dal momento che si può in ogni momento controllare quello che è già stato detto. Spesso, inoltre, la scrittura rappresenta una fase più unitaria della lingua, mentre nella conversazione orale si introducono variabili di pronuncia personali o locali (vedi Dialetto e Gergo).

Evoluzione del linguaggio e delle lingue
L'evoluzione del linguaggio, cioè della facoltà di produzione e percezione della lingua da parte dell'uomo, fu parallela a quella della specie umana. Si ritiene che la comprensione del linguaggio umano implichi una particolare specializzazione del lobo frontale sinistro del cervello (l'"area di Broca"): è possibile che il linguaggio umano non potesse essere distinto dalla comunicazione animale finché non si verificò questa specializzazione fisiologica.
Si ritiene che già l'uomo di Neanderthal fosse in grado di produrre un linguaggio articolato: l'imporsi, 40.000 o 30.000 anni fa, di Homo sapiens (che presenta organi vocali e forma del cranio molto meglio adattati al linguaggio) determinò un netto sviluppo della capacità linguistica. Le lingue umane moderne potrebbero dunque datare da 30 a 40.000 anni: la grande diversità fra le lingue parlate nel mondo indica la straordinaria velocità del cambiamento del linguaggio umano a partire dalla sua formazione.
Nel Settecento il filosofo tedesco Gottfried Leibniz avanzò l'ipotesi che tutte le lingue antiche e moderne derivassero da un unico protolinguaggio. Questa teoria è conosciuta come "monogenesi": la maggior parte degli studiosi ritiene che questo protolinguaggio si possa configurare come un insieme di tratti ipotetici comuni a tutte le lingue, e non come una lingua che sia stata realmente parlata. Se è vero che molte lingue attuali derivano da progenitori comuni, è tuttavia possibile, secondo la teoria della "poligenesi", che il linguaggio umano sia sorto spontaneamente in molti luoghi diversi e che dunque le lingue del mondo non abbiano alcun progenitore comune.
Anche accogliendo l'ipotesi di una sola lingua originaria, oggi non possiamo determinarne né i suoni, né la grammatica, né il vocabolario. È possibile tuttavia indicare leggi generali dell'evoluzione delle lingue: è questo il campo di studio della glottologia.
Sia il linguaggio umano poligenetico o monogenetico, le differenze fra le varie lingue sembrano essere relativamente superficiali; anche se lingue come il cinese, l'italiano e il turco sembrano avere poco in comune, le differenze sono comunque minori delle somiglianze. Sul piano fonetico, le lingue usano più o meno gli stessi suoni, e non c'è lingua che adoperi suoni non presenti in almeno un'altra lingua non correlata o che non possano, con l'esercizio, essere prodotti da tutti gli uomini. Così è per le strutture grammaticali, che variano comunque all'interno di categorie definite. È dunque possibile pensare a strutture universali del linguaggio.
Se una lingua soggiace a cambiamenti molto ampi sul piano fonetico, grammaticale e lessicale, può trasformarsi in un'altra lingua: è ciò che accadde ad esempio al latino, mutatosi nelle lingue romanze, e che possiamo vedere oggi nell'evoluzione in pidgin dell'inglese o del francese. Lingue vicine geograficamente possono tendere ad assomigliarsi, come accade nelle lingue caucasiche o in quelle balcaniche, e una stessa lingua parlata in territori molto lontani può tendere alla differenziazione, come accade per l'inglese britannico e l'inglese americano o per il portoghese e il brasiliano. Questa continua crescita ed evoluzione caratterizza le lingue in tutti i loro aspetti, come espressione della natura e della cultura umana.

2. Lingua Inglese
L'Inglese è la lingua parlata dagli abitanti di Regno Unito, Stati Uniti d'America, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e molti altri paesi. È la lingua ufficiale di numerose nazioni appartenenti al Commonwealth, dov'è largamente diffusa e compresa. Dopo il cinese, è la lingua più parlata nel mondo.
L'inglese appartiene al gruppo anglo-frisone del ramo occidentale delle lingue germaniche, sottofamiglia delle lingue indoeuropee. Ha forti legami con la lingua frisona, più deboli con il nederlandese (olandese-fiammingo) e con i dialetti basso-tedeschi (Niederdeutsch) e ancor più lontani con l'alto tedesco moderno (vedi Lingua tedesca).

Lessico e Ortografia
Il lessico inglese si è notevolmente arricchito nei 1500 anni della sua evoluzione. Il dizionario più completo della lingua, l'Oxford English Dictionary (13 volumi, 1933), edizione riveduta di A New English Dictionary on Historical Principles (10 volumi, 1884-1933; ampliato con supplementi), contiene 500.000 parole. Si calcola che il vocabolario attuale contenga in realtà più di un milione di parole, comprese espressioni slang o gergali, dialettali, termini tecnico-scientifici, molti dei quali introdotti nella seconda metà del XX secolo. L'aggiunta di prefissi e suffissi (mis-, -ness) e il cambio di funzione grammaticale per cui, ad esempio, un sostantivo può diventare verbo (shower "doccia" e to shower "innaffiare") sono i processi che consentono al vocabolario inglese di arricchirsi continuamente.
Il sistema ortografico inglese è ritenuto uno dei più difficili del mondo. La trascrizione delle parole non corrisponde all’esito fonetico perché la grafia delle parole è cambiata in misura minore rispetto alla trasformazione dei suoni; si sono inoltre mantenute alcune convenzioni ortografiche prese in prestito da lingue straniere.

Caratteristiche morfologiche
L'inglese moderno è una lingua quasi totalmente priva di flessione. I nomi hanno desinenze distinte solo per indicare il possessivo e il plurale, o in alcuni casi per distinguere il maschile dal femminile. La struttura dei verbi inglesi è relativamente semplice, se paragonata a quella di altre lingue: esiste una coniugazione forte – presente in parole di antica formazione – con un mutamento vocalico interno, ad esempio sing, sang, sung (paradigma di "cantare") e una coniugazione debole con un suffisso dentale che indica il passato, come in play, played ("giocare, suonare"). Il secondo è il tipo più diffuso: solo 66 sono i verbi con coniugazione forte, mentre verbi di formazione recente seguono invariabilmente quella debole. La terza persona singolare ha una desinenza -s come in speaks ("egli/ella parla"); esistono alcune altre desinenze, come -ing o -en, ma la struttura del verbo comporta l'uso di numerosi verbi modali, come have, can, may, must.
Gli aggettivi monosillabici, oltre ad alcuni bisillabici, sono flessi per grado di comparazione, ad esempio larger ("più largo") o happiest ("il più felice"); altri aggettivi utilizzano, al posto delle terminazioni -er, -est, espressioni perifrastiche con gli avverbi more e most. I pronomi, le parti del discorso maggiormente flesse, hanno una forma per il caso oggetto, come me ("me") o her ("lei"), oltre alle forme di nominativo (I "io", he "egli", we "noi") e ai possessivi (mine "mio", hers "suo - di lei", yours "vostro").

Origini ed Evoluzione
Tre sono le fasi principali dell'inglese: antico inglese, un tempo detto anglosassone (dal 449 al 1100 ca. d.C.); medio inglese (dal 1100 ca. al 1500 ca.); inglese moderno (dal 1500 ca. a oggi), suddiviso in "inglese moderno antico" (fino al 1660 ca.) e "inglese moderno recente".

Antico inglese
L'antico inglese, variante del germanico occidentale, era parlato da alcune popolazioni germaniche (angli, sassoni, juti) delle regioni che comprendono l'attuale Danimarca meridionale e la Germania settentrionale, che invasero la Britannia nel V secolo d.C.; gli invasori spinsero le popolazioni indigene di lingua celtica, ossia i britanni, a nord e a ovest. Col tempo, dalla forma continentale dell'antico inglese nacquero i dialetti regionali.
L'antico inglese era una lingua flessiva (vedi Classificazione delle lingue), caratterizzata da verbi forti e deboli, un numero duale dei pronomi (cioè, ad esempio, una forma per "noi due"), due declinazioni differenti di aggettivi, quattro declinazioni di nomi e distinzioni grammaticali di genere. Questo consentiva una maggiore libertà nell'ordine delle parole nella frase rispetto a quella della lingua attuale. Due erano i tempi verbali: presente-futuro e passato. Anche se la possibilità di formazione delle parole era potenzialmente elevata, il lessico dell'antico inglese era piuttosto scarno.

Medio inglese
Ai principi del periodo medio inglese, che inizia attorno alla conquista normanna del 1066, la lingua era ancora flessiva, mentre verso la fine le relazioni tra gli elementi della frase dipendevano fondamentalmente dall'ordine delle parole. Già nel XIII secolo i tre o quattro casi grammaticali dei nomi si erano ridotti a due nel singolare, mentre per l'indicazione di plurale dei nomi si cominciò a utilizzare la desinenza -es.
La declinazione del nome fu ulteriormente semplificata. Con il livellamento delle flessioni, le distinzioni dei generi grammaticali furono sostituite da quelle del genere naturale. In questo periodo scomparve l'uso del duale, e i casi dativo e accusativo vennero ridotti a una forma comune. Inoltre, i pronomi originali di terza persona plurale hie, hem furono sostituiti dalle forme scandinave they, them, mentre who, which e that acquistarono la loro attuale funzione. La coniugazione verbale fu semplificata con l'omissione delle desinenze e l'uso di una forma comune per il singolare e il plurale del passato dei verbi forti.

Inglese moderno antico
Il passaggio dal medio inglese all'inglese moderno fu segnato da un importante mutamento nella pronuncia delle vocali fra il XV e il XVI secolo. Questo cambiamento, definito "grande rotazione vocalica" dal linguista danese Otto Jespersen, consisteva in una rotazione nell'articolazione delle vocali relativamente alla posizione assunta dalla lingua e dalle labbra. La grande rotazione vocalica mutò la pronuncia di 18 delle 20 vocali distintive e dittonghi del medio inglese. Da allora la grafia rimase inalterata, anche a causa dell'avvento della stampa alla fine del XV secolo, proprio mentre avveniva la rotazione.

Inglese moderno recente
Alla fine del XVII secolo e durante il XVIII si verificarono alcuni importanti mutamenti grammaticali. Le regole formali della grammatica inglese furono stabilite proprio in quel periodo. Il pronome possessivo its entrò nell'uso al posto della forma di genitivo his, che era l'unica forma impiegata dai traduttori della Bibbia del re Giacomo (King James Bible, 1611). Le forme dei tempi progressivi si svilupparono da un participio presente usato in funzione di sostantivo e preceduto dalla preposizione on; in seguito la preposizione si indebolì fino a diventare a e poi sparire; rimase perciò semplicemente la desinenza -ing del verbo. Dopo il XVIII secolo questo processo di sviluppo culminò nella creazione della forma passiva progressiva del tipo "the job is being done" ("si sta facendo il lavoro").
L'evoluzione più importante, iniziata in questo periodo e proseguita da allora fino a oggi, riguarda il lessico. Molte parole entrarono a far parte della lingua inglese in seguito all'espansione coloniale in America settentrionale e in molte altre parti del mondo.

Inglese Americano
La colonizzazione dell'America settentrionale portò a un importante sviluppo dell'inglese fuori della Gran Bretagna. Nell'inglese americano si include anche l'inglese parlato in Canada, anche se la varietà canadese mantiene alcuni tratti della pronuncia, della grafia e del lessico britannico. Le differenze più rilevanti fra l'inglese americano e l'inglese britannico sono nella pronuncia e nel vocabolario. Le differenze di grafia, intonazione e accentazione sono più lievi.
L'inglese americano tende a essere più rigido dal punto di vista della grammatica e della sintassi, mentre sembra più tollerante nell'uso di neologismi. Ciò è probabilmente dovuto alla composizione etnica della popolazione statunitense, formata in larga parte dai discendenti di immigrati non anglofoni, che dovettero apprendere l'inglese come seconda lingua: se da un lato essi furono portati a rispettare rigidamente le regole grammaticali della nuova lingua, dall'altro importarono in essa parole ed espressioni della loro parlata d'origine.

Basic English
Una forma semplificata della lingua inglese, basata su 850 parole chiave, fu sviluppata alla fine degli anni Venti dallo psicologo inglese Charles Kay Ogden e divulgata dallo studioso I.A. Richards. Noto come Basic English (inglese essenziale), fu usato principalmente per insegnare l'inglese a persone non di madrelingua e fu promosso come lingua internazionale. Il principio fondamentale dell'inglese essenziale è che qualsiasi idea, anche complessa, può essere ridotta a unità semplici di pensiero ed espressa con chiarezza da un numero limitato di parole di uso quotidiano. La complessità dell'ortografia e della grammatica inglese si rivelò però un grosso ostacolo all'adozione dell'inglese essenziale come seconda lingua.

Inglese Pidgin
L’inglese si è diffuso in numerosi linguaggi semplificati adottati da parlanti non di madrelingua inglese. Un pidgin inglese, nato e sviluppatosi per gli intensi traffici commerciali tra cinesi e inglesi, si parla in Melanesia, in Nuova Guinea, in Australia, nelle Filippine e in altri arcipelaghi del Pacifico. È costruito su una base cinese, arricchita da numerose parole inglesi e da un essenziale apparato grammaticale. Sulle coste pacifiche nordamericane viene usato il chinook, una sorta di lingua franca tra francese, inglese e lingue dei nativi americani. Infine in Africa, soprattutto nelle regioni orientali, in Camerun e in Sierra Leone, si sta sviluppando sempre di più un pidgin inglese.
Un particolare fenomeno di “pidginizzazione” si può riscontrare nell’uso linguistico dell’inglese in determinati ambiti tecnici, come ad esempio il mondo scientifico dove ormai l’inglese è divenuto la lingua di comunicazione per eccellenza. Al di là dell’abilità linguistica di ciascun parlante, l’inglese, in questo come in altri ambiti particolari di comunicazione, viene adottato come lingua di contatto, quindi con molte concessioni alle regole grammaticali e a quelle di pronuncia.

Il futuro dell'Inglese
La grande diffusione dell’inglese attraverso i mass media, su scala ormai mondiale, ha comportato una maggiore standardizzazione nella pronuncia e nell’uniformità della grafia, oltre a un progressivo adattamento proprio della forma grafica a quella della pronuncia. Nonostante questo processo di standardizzazione, una caratteristica peculiare dell’inglese sta nella sua naturale tendenza ad arricchirsi e a modificarsi: vengono coniati in continuazione neologismi e nuove accezioni per esprimere idee e concetti di recente introduzione. Particolarmente fecondi di novità lessicali sono gli incroci con le altre realtà linguistiche con cui l’inglese viene a contatto, in particolare nella sua variante americana. Proprio questa straordinaria flessibilità strutturale ha reso l’inglese il più diffuso mezzo di comunicazione linguistica al mondo.

3. Lingua Francese
Lingua parlata in Francia e in parti del Belgio e della Svizzera, nonché nei dipartimenti francesi d'oltremare come la Guayana Francese e nelle ex colonie francesi come il Québec, molti paesi dell'Africa settentrionale e occidentale, l'Indocina, Haiti e il Madagascar. Importante lingua della cultura e della diplomazia tanto in passato quanto nel presente, è una delle lingue ufficiali della Segreteria dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Il francese appartiene alle lingue romanze, sottogruppo delle lingue indoeuropee.

Il Latino nella Gallia
I celti furono i primi abitanti della regione che i romani chiamavano Gallia, corrispondente per buona parte alla Francia dei nostri giorni; essi parlavano una lingua dalla quale sarebbero derivati l'irlandese, il gallese e il bretone (vedi Lingue celtiche). Dopo la conquista della Gallia, compiuta nel I secolo a.C. dalle legioni romane di Caio Giulio Cesare, si diffuse prepotentemente il latino, sia nell’uso ufficiale (politico, amministrativo, militare), sia nella vita quotidiana: quest’ultimo era la variante orale e popolare, la cosiddetta lingua vulgaris per contrapposizione al latino colto e letterario, al sermo urbanus usato da scrittori e oratori. Il latino volgare, anche se aperto alle contaminazioni, fonetiche e lessicali, delle lingue indigene, prima della fine del IV secolo d.C. in Gallia aveva completamente sostituito il celtico. Solo poche parole di pura origine celtica – una cinquantina in tutto – sono tuttavia passate nel francese moderno, e comunque in una forma latinizzata: ad esempio il celtico carruca ("carro") ha dato origine al gallo-latino carrus, da cui il francese moderno char. Anche la lingua celtica parlata ai nostri giorni in Bretagna non è un residuo della cultura locale preromana: si ritiene sia stata reimportata da abitanti celtici delle isole britanniche, riparati in Bretagna in seguito alle invasioni degli angli, degli iuti e dei sassoni del V-VII secolo d.C.
La lingua vulgaris si stabilì così saldamente in Gallia che le ondate successive di conquistatori appartenenti a tribù germaniche (visigoti, burgundi e franchi), non riuscirono a imporre il proprio idioma nel paese, ma dovettero adottare la lingua che vi avevano trovato. Nel francese moderno, qualche centinaio di parole sono di origine germanica: fra queste, franc ("libero") e français ("francese"), entrambe derivate dalla parola germanica franko ("uomo libero"); fauteuil ("poltrona") dal germanico faldastol; e auberge ("albergo"), dal germanico heriberga. Nella lingua vulgaris entrarono anche termini greci: già in epoca preromana, infatti, esistevano fiorenti colonie greche sulle coste francesi del Mediterraneo, particolarmente nelle odierne Marsiglia e Nizza.
Nel VII secolo la lingua vulgaris era stata ormai assai modificata dalla popolazione; nota come romano o romanico o romanzo, era parlata tanto dalle classi superiori quanto dalla gente più comune. Già nel VI secolo i resoconti dei concili ecclesiastici tenuti in Francia venivano trascritti in romanico e nell'VIII secolo Carlo Magno, re dei franchi, emanò un editto con il quale si imponeva al clero di pronunciare i sermoni nella lingua del popolo. Un’ulteriore impulso alla diffusione delle nuove lingue in ambito ecclesiastico venne dato dal Concilio di Tours (813) durante il quale i vescovi raccomandarono ai sacerdoti, per non rendere vano il loro ministero di educazione religiosa, di rivolgersi ai fedeli nel corso della liturgia e delle pratiche di culto non più in latino, lingua divenuta incomprensibile alle classi popolari, ma nelle lingue ormai diffuse, che fossero romanze o germaniche.

Lingua D'Oïl e lingua D'Oc
Nell'Alto Medioevo le lingue parlate a nord e a sud della Loira cominciarono ad avere uno sviluppo separato. Fra l'XI e il XIII secolo si erano ormai stabilite due lingue ben distinte, la lingua d'oïl nel Nord e la lingua d'oc nel Sud. I termini oïl e oc sono le parole usate per dire "sì" in ognuna delle due lingue; analogamente, l’italiano antico potrebbe essere definito “lingua del sì”. Una delle principali differenze fonetiche delle due varietà linguistiche romanze consisteva nel trattamento della vocale a del latino, non accentata e in sillaba aperta: la vocale divenne e in lingua d'oïl, ma rimase invariata in provenzale, il principale dialetto della lingua d'oc; pertanto, la parola latina mare ("mare"), ad esempio, divenne mer nella lingua d'oïl e mar in provenzale.
In ciascuna lingua si svilupparono numerosi dialetti. Mentre però al Nord ben presto la variante parlata nelle regioni dell’Ile-de-France e dell’odierno Centre – dove si erano insediate, tra Parigi e Orléans, le prime dinastie dei re di Francia – ebbe la meglio sui dialetti piccardi, lorenesi, champenois e anglo-normanni, dando origine all’antico francese, al sud, oltre al provenzale, sopravvissero altri dialetti come il guascone, l'alverniate, il limosino e il bearnese.
In lingua d’oc, detta anche occitanico, vennero scritte, tra il XII e il XIII secolo, le prime opere in lingua romanza di grande valore letterario: le liriche dei trovatori. Il prestigio letterario e il consolidamento di realtà politiche come quelle dei grandi feudatari del sud della Francia, primi fra tutti i duchi di Aquitania, sembrò per un certo periodo poter assegnare alla lingua d’oc il ruolo di lingua principale delle regioni d’oltralpe. Ma, a partire dal XIII secolo, la fortuna del regno di Francia e delle sue dinastie segnò una rapida espansione politica della Corona e, di conseguenza, della lingua d'oïl che si impose su tutto il territorio.

Il francese medievale
Nei secoli XII e XIII la lingua d'oïl divenne popolare in tutta Europa, seguendo le fortune del regno di Francia e delle sue dinastie. Lingua della corte angioina di Napoli e diffusa anche in Inghilterra, nei due secoli che seguirono la conquista normanna del 1066 il francese rivaleggiò fortemente con l'inglese come lingua parlata, quasi soppiantandolo come lingua letteraria (vedi Lingua anglonormanna).
Nel Medioevo gli scambi culturali favoriti dalle crociate fecero sì che un certo numero di parole arabe entrasse a far parte della lingua francese, come di altre lingue europee, sia per il prestigio di cui la scienza araba godeva nel mondo della cultura, sia perché i crociati di ritorno dalla Terra Santa avevano portato con sé in patria nuove espressioni. Tra le parole di derivazione araba entrate a far parte del francese vi sono chiffre ("numero, cifra"), cimetière ("cimitero"), girafe ("giraffa"), épinard ("spinacio").
I secoli XIV e XV, funestati dalla guerra dei Cent'anni tra Francia e Inghilterra, diedero nuovo vigore al nazionalismo francese e favorirono l'accettazione della lingua di corte come standard linguistico nazionale. Affermatosi come lingua letteraria e di corte, secondo quanto stabiliva l'ordinanza di Villers-Cotterts del 1539, emessa dal re Francesco I, il francese parlato nell'Ile de France, e specialmente a Parigi, divenne la lingua ufficiale di tutto il regno.

La codificazione grammaticale
Nel XVII secolo la lingua francese aveva ormai sostanzialmente raggiunto quella che è la sua forma attuale. Le terminazioni fisse ereditate dal latino erano scomparse e le relazioni sintattiche tra le parole dipendevano da preposizioni o dall'ordine delle parole stesse. La più vasta alfabetizzazione, la diffusione della stampa e la pubblicazione, negli ultimi due decenni del secolo, dei primi grandi dizionari della lingua francese contribuirono alla stabilizzazione della lingua.
I cambiamenti verificatisi successivamente nel francese si limitarono a progressive modifiche di pronuncia e all'aggiunta di nuove parole. Le guerre in Italia, nella prima metà del XVI secolo, avevano già portato all'introduzione di circa 800 parole, per la maggior parte termini derivati dalle arti (fugue, opéra) e termini militari (colonel, soldat). Le guerre della Francia contro la Spagna, nella prima parte del XVII secolo, arricchirono la lingua francese di circa 200 parole, tra cui cigare e nègre, mentre quelle con la Germania nello stesso secolo comportarono l'introduzione di un modesto numero di parole tedesche, come blocus ("blocco") e cible ("bersaglio").

Dalla rivoluzione al francese moderno
In seguito alla Rivoluzione francese, la pronuncia di corte fu abbandonata a favore di quella popolare e, come attesta un'appendice del dizionario pubblicato nel 1798 da una sezione dell'Institut de France, furono coniate numerose parole. Tra quelle che ancora sopravvivono nel francese moderno, e che la Rivoluzione esportò in tutta Europa, si ricordano divorcer ("divorziare"), guillotiner ("ghigliottinare"), bureaucrate ("burocrate").
Dalla fine dell'Ottocento, la maggior parte delle aggiunte lessicali attinse alla lingua inglese, ormai egemone a livello mondiale. Tra le parole inglesi assunte dal francese senza variazioni ortografiche figurano sandwich, square, ticket, toast, week-end; tra quelle cui è stata data una nuova ortografia, boxe (da boxing), bouledogue (da bulldog), rosbif (da roast beef). Il fenomeno, rafforzatosi dopo la seconda guerra mondiale, ha generato in alcuni governi tendenze protezionistiche volte alla difesa della purezza della lingua francese.

4. Lingua Tedesca
Lingua ufficiale della Germania, dell’Austria e di circa il 65% della popolazione della Svizzera. In una variante dialettale alemanna, il tedesco è la lingua ufficiale del Principato del Liechtenstein. Il tedesco è stato, nel corso della storia, lingua di altre popolazioni venute a contatto o un tempo politicamente unite ai tedeschi. In Italia il tedesco è lingua ufficiale in Alto Adige; dialetti tedeschi sono anche parlati in altre aree alpine: le valli del Lys, la valle Anzasca e la Valsesia, intorno al massiccio del Monte Rosa; sull’altipiano di Asiago; e in alcune valli della Carnia (vedi Bilinguismo).
Il tedesco appartiene al gruppo nederlandese-germanico del ramo occidentale delle lingue germaniche, sottofamiglia delle lingue indoeuropee.

Classificazione
La lingua tedesca comprende due grandi gruppi dialettali, l'alto tedesco, che include il tedesco letterario corrente, e il basso tedesco; insieme, essi costituiscono una catena linguistica ininterrotta che va salendo verso nord, dalla Svizzera fino al mare; un dialetto locale può essere compreso da parlanti dei dialetti vicini, ma non necessariamente da parlanti di dialetti più lontani.

Alto tedesco
L'antico alto tedesco, che era diffuso nelle regioni montuose centromeridionali ed era privo di una lingua letteraria standard, fu parlato fino al 1100 circa. L'alto tedesco moderno (Hochdeutsch) discende dai dialetti medio-alto-tedeschi simili a quelli usati da Lutero nella traduzione che fece della Bibbia nel XVI secolo. La linea di demarcazione, a sud della quale si parla l'alto tedesco, va – da ovest a est – da Aquisgrana alla zona a sud di Düsseldorf, Kassel, Magdeburgo e Berlino, fino a Francoforte sull'Oder. L'antico tedesco è a sua volta suddiviso in due gruppi: tedesco superiore (Oberdeutsch), parlato in Svizzera, Austria, Liechtenstein e Germania meridionale; e tedesco medio o centrale (Mitteldeutsch), parlato dal Lussemburgo alla Germania centrale.

Basso tedesco
Il basso tedesco (Plattdeutsch o Niederdeutsch) comprende il basso francone, strettamente affine al nederlandese e parlato soltanto in una ristretta fascia al confine tra Olanda e Germania, e il basso sassone, usato nelle pianure settentrionali a est e nord-est del fiume Elba, includendo le città di Münster, Kassel, Brema, Hannover, Amburgo e Magdeburgo. Per il basso tedesco non esiste una lingua letteraria standard. In seguito alla colonizzazione delle regioni baltiche a opera dei cavalieri teutonici, la lingua si diffuse nelle regioni a est dell'Elba fino a Magdeburgo, nel Meclemburgo, in Pomerania e in alcune aree della Prussia. L'uso del basso tedesco venne meno col declino della Lega anseatica.

Caratteristiche Fonomorfologiche
Nel corso della sua evoluzione il tedesco subì numerose e sistematiche mutazioni di alcune consonanti. La cosiddetta “prima rotazione consonantica” distinse l'antica lingua protogermanica dalle altre parlate indoeuropee. In questa rotazione, che viene descritta dalla legge di Grimm (vedi Glottologia: Le prime comparazioni), le ipotetiche occlusive sorde indoeuropee p, t, k passarono in germanico rispettivamente a f, th, h; le occlusive sonore b, d, g dell'indoeuropeo divennero p, t, k; e similmente le consonanti sonore aspirate indoeuropee bh, dh, gh passarono in germanico a b, d, g.
Dopo che i dialetti germanici occidentali ebbero sviluppato i propri tratti distintivi, si verificò la “seconda rotazione consonantica”, databile al 500-700 d.C., che fece dei dialetti alto-tedeschi un ramo separato dalle altre lingue germaniche occidentali: la p germanica diventò pf quando era in posizione iniziale, in posizione interna dopo consonanti, o quando era geminata (alto tedesco Pflanze, basso tedesco Plante, "pianta"); in posizione intervocalica, o finale dopo vocali, divenne ff o f (alto tedesco hoffen, basso tedesco hopen, "sperare"); alle stesse condizioni, t germanica diventò z (pronunciata ts, come in Pflanze) o ss (alto tedesco essen, basso tedesco eten, "mangiare"); dopo vocali, k passò a ch (alto tedesco machen, basso tedesco maken, "fare"), mentre in tutti gli altri casi k rimase inalterata, tranne che nella zona più meridionale della Germania, dove divenne prima kch, e poi ch. Un mutamento successivo, che si ritrova anche in basso tedesco, è quello del passaggio di th germanico a d (alto tedesco das, basso tedesco dat, "che").
Un'altra caratteristica del tedesco, così come di tutte le altre lingue germaniche, è che l'accento principale cade regolarmente sulla prima sillaba della parola; nei composti verbali, però, si accenta la sillaba della radice, non il prefisso.
Le caratteristiche fonologiche della lingua tedesca comprendono: l'uso dell'occlusiva glottale (il colpo di glottide) prima di ogni vocale iniziale accentata in parole semplici o parti indipendenti di una parola; la pronuncia di u, o, ü e ö con un completo arrotondamento delle labbra; la chiusura delle vocali lunghe e l'apertura delle vocali brevi; l'articolazione linguale e gutturale di r; la sonorizzazione della s semplice intervocalica o precedente una vocale e la desonorizzazione dei suoni finali b, d, g, che passano rispettivamente a p, t, k; l'uso delle affricate pf e ts; la pronuncia di w come v e di v come f. Le vocali sono nasalizzate solo in prestiti dal francese.
Il tedesco è una lingua flessiva (vedi Classificazione delle lingue), con tre generi (maschile, femminile e neutro), quattro casi (nominativo, accusativo, genitivo e dativo) e una declinazione degli aggettivi qualificativi distinta in forte e debole. Grazie alle desinenze nominali e verbali, alcune parti del discorso sono più facilmente identificabili che in altre lingue dalla flessione più povera. L'ordine delle parole nella frase segue regole ben precise: nella frase principale il verbo occupa rigidamente la seconda posizione, mentre occupa la posizione finale nelle dipendenti. Nella formazione di neologismi il tedesco fa largo uso di composti, formati da due o più parole indipendenti e da prefissi e suffissi. Particolarmente ricchi sono il lessico poetico e filosofico e la terminologia tecnico-scientifica.

5. Lingua Spagnola
Lingua appartenente al gruppo romanzo delle lingue indoeuropee, parlata principalmente nella penisola iberica e nell'America latina da circa 250 milioni di persone. Lo spagnolo parlato in Spagna è chiamato anche castigliano, dal nome della regione in cui si è sviluppato, la Castiglia.
Nella penisola iberica l'area di lingua spagnola non coincide perfettamente con i confini politici della Spagna, che comprendono anche tre regioni non ispanofone: la Galizia, a nord-ovest, dove si parla il gallego (un dialetto molto simile al portoghese); le Province Basche, a nord, dove si parla il basco; la Catalogna, sulla costa orientale, dove si parla un'altra lingua romanza, il catalano.
Il castigliano fu introdotto dai colonizzatori nelle isole Canarie, nelle Antille, nelle Filippine, nella parte meridionale dell'America del Nord, nella maggior parte dell'America del Sud e sulla costa occidentale dell'Africa. Il catalano è parlato anche nelle isole Baleari, nel dipartimento dei Pirenei orientali in Francia e in alcune zone di Cuba e dell'Argentina.

Origine ed evoluzione
Il latino volgare parlato dai soldati e dai colonizzatori romani nell'antica Spagna fu la base dei numerosi dialetti spagnoli che si formarono durante il Medioevo. Quando nel XIII secolo la Castiglia si impose politicamente, il suo dialetto fu gradualmente accettato come lingua standard.
Anche se la maggior parte del lessico è di derivazione latina, lo spagnolo attinse anche ad altre fonti, ad esempio le lingue parlate prima del latino, come il greco, il basco e il celtico. L'invasione dei visigoti all'inizio del V secolo d.C. introdusse alcune parole dalle lingue germaniche.
La conquista musulmana dei secoli successivi apportò un gran numero di termini arabi, facilmente individuabili per il prefisso al-, assimilazione dell’originario articolo arabo. Parole ed espressioni francesi entrarono nello spagnolo, a partire dall'XI secolo, tramite la diffusione linguistica causata dai pellegrinaggi diretti a Santiago de Compostela. Nel XV e XVI secolo si ebbe un forte afflusso di elementi italiani in seguito alla dominazione aragonese in Italia e grazie alla grande diffusione della poesia italiana in Spagna.
I rapporti fra la Spagna e le sue colonie portarono all'introduzione di termini delle lingue indiane d'America e di altra provenienza.

Principali caratteristiche grammaticali
La struttura grammaticale dello spagnolo è molto simile a quella del francese, dell'italiano, del portoghese e delle altre lingue romanze. Lo spagnolo ha ridotto a tre le quattro coniugazioni verbali latine; i verbi spagnoli regolari della seconda e della terza coniugazione, inoltre, differiscono solo in quattro forme, cioè l'infinito presente, la prima e seconda persona plurale del presente indicativo e la seconda plurale dell'imperativo.
Gli ausiliari sono usati per formare i tempi composti, come in altre lingue romanze; per i tempi passati, l'ausiliare è sempre una forma di haber, "avere" (se ha lisonjeado, "si è vantato"), anche nei casi in cui l'italiano e il francese utilizzano l'ausiliare "essere". Come nelle altre lingue romanze, il futuro indicativo e il condizionale presente si sono formati aggiungendo all'infinito (usato come radice) le terminazioni, rispettivamente del presente e dell'imperfetto, di haber.
Il genere neutro sopravvive solo in alcuni casi: nel singolare dell'articolo determinativo lo, nei pronomi dimostrativi esto, eso e aquello, e nel pronome di terza persona complemento oggetto lo. Queste forme neutre compaiono solo in costrutti indefiniti e impersonali (no lo hizo, "non lo ha fatto") e in costrutti in cui l'articolo neutro, accompagnato da un aggettivo o un avverbio, forma espressioni astratte (ad esempio lo bueno, "il buono", significa "bontà").
Lo spagnolo, più delle altre lingue romanze, usa in modo idiomatico i verbi riflessivi con un significato speciale. Una particolarità della grammatica spagnola, infine, risiede nell'uso della preposizione a ("verso") posta prima del complemento oggetto indicante una persona (ad esempio, veo a mi amigo, "vedo il mio amico").

6. Lingua Greca
Lingua parlata e scritta dagli abitanti della Grecia nei periodi arcaico, attico, ellenistico, bizantino e moderno. È l'unica rappresentante della sottofamiglia greca delle lingue indoeuropee. Il greco antico e quello moderno presentano notevoli differenze, pur utilizzando lo stesso alfabeto di 24 caratteri, derivato dall'alfabeto fenicio.

Greco antico
Il greco antico si presenta sotto forme diverse, raggruppate dagli studiosi in piccole unità chiamate dialetti. Ogni regione, e soprattutto ogni genere letterario, aveva una propria lingua. Questa differenziazione fu la conseguenza di varie ondate migratorie che dal nord calarono sulla Grecia in tempi diversi, e fu favorita dalla particolare configurazione geografica del paese. I quattro dialetti principali erano l'arcadico-cipriota, il dorico, l'eolico e lo ionico-attico. Caratteri comuni a tutti i dialetti sono la conservazione del sistema vocalico indoeuropeo; la caduta delle consonanti finali (tranne n, r, s); la conservazione dei tre generi (maschile, femminile, neutro), dei tre numeri (singolare, plurale, duale) e delle tre forme verbali (attiva, media, passiva); unitari sono il lessico e la sintassi.

Origini ed evoluzione
Antico progenitore del greco fu il miceneo, la lingua della civiltà minoica. La decifrazione (1952) della scrittura detta Lineare B, rintracciata in tavolette rinvenute durante scavi archeologici a Creta e nella Grecia continentale dopo il 1900, ne pone la datazione intorno al 1500-1400 a.C.
Le prime attestazioni del greco risalgono al 700-600 a.C., anche se bisogna collocare probabilmente nel IX secolo a.C. la composizione di Iliade e Odissea, attribuite al primo grande poeta greco, Omero, e composte in una lingua letteraria – detta appunto "omerica" – molto elaborata, che non coincide con nessun dialetto particolare, anche se la coloritura superficiale richiama lo ionico.

L’arcadico-cipriota
L’arcadico-cipriota, comprendente l'arcadico, il ciprio e il panfilio, è un gruppo dialettale di cui non si hanno molte attestazioni e che si presenta come un insieme poco omogeneo. Queste tre parlate erano i resti di una comune lingua "achea" che si diffuse nel Mediterraneo sudorientale nel II millennio a.C.

Il dorico
Il dorico, originariamente parlato nella Grecia settentrionale, si estese al Peloponneso, dove confinò l'arcadico nella regione centrale, nelle Cicladi meridionali, a Creta e nelle colonie greche in Asia Minore, Sicilia e Italia meridionale. Fu scritta in dorico la maggior parte delle opere di Teocrito nel III secolo a.C. e molti tratti dorici presenta anche la lingua di Pindaro.

L’eolico
L'eolico era parlato principalmente in Tessaglia, Beozia e lungo le coste settentrionali dell'Asia Minore. La forma più pura di eolico è considerata quella dell'isola di Lesbo. Tratti distintivi dell'eolico sono: i gruppi ro e or dove gli altri dialetti presentano ra e ar; l'uso di aggettivi per indicare i patronimici, dove gli altri dialetti ricorrono al genitivo; la continuazione delle lettere labiovelari indoeuropee all'inizio di parole con labiali, invece delle dentali di altri dialetti (beotico pettares "quattro", contro il dorico tetores e l'attico tettares) (vedi Fonetica). L’eolico fu la lingua dei poeti Alceo e Saffo.

Lo ionico-attico
Lo ionico-attico è il dialetto meglio testimoniato. Fra le sue caratteristiche sono la sostituzione della a lunga (ā) con e lunga (ē), la perdita del suono u semivocale rappresentato dal digamma (), la conservazione dell'aspirata h iniziale. Lo ionico era parlato in molte isole egee e su quasi tutte le coste dell'Asia Minore. L'attico era la lingua della prosa; fu impiegato in varie opere letterarie del V secolo a.C., fra cui gli scritti di Ippocrate e di Erodoto.
Dallo ionico si sviluppò l'attico, la forma comune del greco classico parlata ad Atene e nell'Attica. Particolare dell'attico è la sostituzione del gruppo ss con tt (pratto, "io faccio", invece di prasso), il ripristino – in alcuni casi – di "a" lunga, e un modo diverso rispetto allo ionico di contrarre le vocali. Nel V secolo a.C. la supremazia ateniese in campo politico, filosofico, artistico e teatrale fece dell'attico la principale lingua letteraria, elevata a grande dignità dalle opere di Eschilo, Euripide, Sofocle, Demostene, Platone, Tucidide e Senofonte.

Koinè letteraria e lingua vernacolare
Le conquiste di Alessandro Magno e l'espansione dell'impero macedone nel IV secolo a.C. condussero a nuovi insediamenti greci in Medio Oriente, dove l'attico, lingua delle classi colte e dei mercanti, divenne la lingua comune. Il contatto con altre popolazioni portò diverse modifiche nell'attico, dando vita a una nuova forma di greco, la koinè o "(lingua) comune", che si diffuse in tutte le aree che si trovavano sotto l'influenza greca. Fu la lingua della corte, della letteratura e del commercio in tutto l'impero ellenistico.
La koinè si divise in koinè letteraria e lingua vernacolare, o popolare. La lingua letteraria apparteneva alle classi colte, che anche sotto il dominio romano ebbero una notevole vitalità intellettuale e utilizzarono la lingua per i loro interessi filosofici, grammaticali, artistici e scientifici. Ci furono semplificazioni in campo grammaticale e cambiamenti di pronuncia, che fecero perdere all'attico parte della sua musicalità: i valori delle vocali furono ridotti e i dittonghi semplificati.
La lingua vernacolare fu meno influenzata dagli sviluppi della cultura ellenistica. Prese a prestito molti vocaboli dalle lingue mediorientali e si discostò parecchio dalla grammatica tradizionale; è nota soprattutto attraverso papiri e lettere. Il più importante impiego in testi scritti avviene nei quattro Vangeli del Nuovo Testamento, che presentano, però, una forma linguistica particolare, dal forte carattere semitico. I padri della Chiesa utilizzarono in seguito la koinè letteraria.
Nel I e II secolo d.C. un gruppo di eruditi promosse il ritorno alla purezza dell'attico del V e IV secolo a.C. Questo movimento, detto atticista, non ebbe successo, nonostante il brillante uso che dell'attico fecero Galeno e Luciano. Molti grandi scrittori del II secolo e dei secoli successivi, fra cui Plutarco e Pausania, usarono la koinè letteraria solo occasionalmente. La distruzione della biblioteca di Alessandria nel 391 a opera dell'imperatore romano Teodosio e la chiusura della scuola di Atene da parte di Giustiniano nel 529 contribuirono a confinare la lingua letteraria nell'ambito ecclesiastico ed erudito.
Il declino dell'impero bizantino frazionò il territorio in tanti piccoli stati indipendenti. La koinè letteraria rimase statica, mentre il vernacolo originò molti dialetti locali, che subirono in seguito ulteriori influssi dalle popolazioni che transitavano in Medio Oriente: turchi, bulgari, albanesi e veneziani, fra gli altri. Cominciava intanto l'isolamento dei Balcani dalle grandi rotte commerciali e navali.

Greco moderno
Fra il XVIII e il XIX secolo cominciò a formarsi una coscienza nazionale, che però accantonò il problema dell'uniformità linguistica. Alla fine dell’Ottocento studiosi e scrittori greci, chiamati demoticisti (da demotikè, "lingua popolare"), promossero una sistematizzazione della lingua popolare a scopo didattico ed educativo. Fra i principali esponenti vi furono il poeta Dionísios Solomós e il filologo francese di origine greca Jean Psichari. I maggiori risultati furono la creazione di una grammatica in vernacolo e un'ampia produzione letteraria a carattere sociale. Ancor oggi il vernacolo è la lingua degli scrittori e dei poeti.
Opposti ai demoticisti erano i puristi, sostenitori di un greco purificato (katharevousa), i quali intendevano richiamare i greci alla purezza e alla raffinatezza della loro eredità culturale, proponendo l'uso di una lingua elegante, artificiale ed erudita, lontana dall'uso quotidiano, la cosiddetta katharevousa. Ma nonostante il purismo fosse sostenuto e promosso da gran parte della classe intellettuale e accademica, nel 1976 il greco demotico venne dichiarato lingua ufficiale, usata dal governo, dai giornali e in molte università.
Il greco purista è quello che più si avvicina al greco antico per grammatica, ortografia e lessico; per la fonetica il greco moderno è invece simile a quello antico, tranne che per variazioni nell'accentazione e nella pronuncia di vocali e dittonghi. Nella parola anthropoi ("uomini"), ad esempio, il dittongo oi è pronunciato come i in greco moderno, secondo un fenomeno generalizzato detto "iotacismo" (iota è il nome greco della lettera i).
Le principali differenze fra greco antico e moderno sono nella flessione, cioè nella coniugazione verbale e nella declinazione dei nomi. Il greco moderno ha perso il duale e il caso dativo nella declinazione; nella coniugazione ha perso il duale e il modo ottativo (anticamente usato per indicare desiderio e dubbio). Al posto di molte forme specifiche, il greco moderno ricorre ad ausiliari. Nel lessico, il greco moderno vernacolare adotta con grande facilità prestiti da lingue straniere, mentre il greco purista preferisce coniare nuove parole modellandole su quelle antiche.

7. Lingua Russa
Lingua ufficiale della Russia. Fu lingua franca dell'impero russo e dell'Unione Sovietica, ed è tuttora usata come seconda lingua nelle altre ex repubbliche sovietiche. È una delle cinque lingue ufficiali dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Chiamata anche grande russo, forma con il bielorusso e l'ucraino il ramo orientale delle lingue slave; comprende tre gruppi di dialetti: settentrionale, centrale e meridionale. I dialetti meridionali e centrali si distinguono per il cosiddetto akan'je, cioè la pronuncia della o non accentata come a. Il russo standard si basa sul dialetto moscovita, un dialetto centrale. La lingua russa usa l'alfabeto cirillico, composto di 32 lettere.

Caratteristiche fonomorfologiche
Il russo è una lingua quasi del tutto fonetica, che cioè si legge come si scrive, e le regole di pronuncia sono poche e semplici. Vi sono tre generi grammaticali: maschile, femminile e neutro. Non esiste articolo e i nomi vengono declinati secondo caso (nominativo, accusativo, genitivo, dativo, strumentale e preposizionale) e numero (singolare e plurale; vedi Flessione). Gli aggettivi concordano con i nomi in genere, caso e numero.
Il verbo ha tre tempi: passato, presente e futuro; esiste inoltre la categoria dell'aspetto, comprendente l'imperfettivo, che presenta l'azione come un processo ripetitivo, e il perfettivo, che presenta l'azione come conclusa; la distinzione di aspetto viene conservata in tutti e tre i modi (indicativo, congiuntivo-condizionale e imperativo) e nei participi, sia avverbiali sia aggettivali (questi ultimi possono essere attivi o passivi). Data l'esistenza di declinazioni e coniugazioni, l'ordine delle parole nella frase è piuttosto libero. Una tipica caratteristica del lessico russo è data dalle grandi famiglie di parole derivate da una stessa radice per mezzo di vari prefissi e suffissi.

Tradizione ed evoluzione
Le prime testimonianze scritte risalgono alla fine del X secolo, dopo la conversione delle genti slave al cristianesimo. La lingua scritta introdotta dai missionari fu l'antico slavo ecclesiastico, detto anche antico bulgaro o glagolitico. Al tempo della sua introduzione, lo slavo ecclesiastico poteva essere facilmente compreso dagli slavi orientali; gradualmente, però, la lingua parlata subì un gran numero di semplificazioni sia fonetiche sia morfologiche e la divergenza rispetto alla lingua scritta si fece sempre maggiore. L'antico slavo ecclesiastico continuò a essere usato come lingua letteraria fino al termine del XVII secolo e solo in campo amministrativo e legale la scrittura fu completamente libera dalle influenze di questa lingua.
Nel Settecento la secolarizzazione e l'occidentalizzazione della cultura, operate sotto Pietro il Grande, causarono una grande rivoluzione linguistica. L'antica lingua scritta, sia ecclesiastica sia burocratica, non era in grado di recepire i concetti scientifici, tecnologici, culturali e politici che Pietro aveva introdotto, cosicché fu sviluppata una lingua scritta che mescolava l'antico slavo, il vernacolare e gli elementi occidentali di recente acquisizione. La lingua russa raggiunse la sua forma attuale nella prima metà del XIX secolo.

8. Lingua Giapponese
Lingua parlata dai circa 123 milioni di abitanti del Giappone e dai giapponesi che vivono nelle isole Hawaii e nei continenti nordamericano (Stati Uniti) e sudamericano (Brasile). Non è stata stabilita una relazione certa fra il giapponese e altre lingue.
Somiglianze di struttura fanno pensare a una possibile parentela con la lingua coreana e con le lingue altaiche. Molti studiosi, tuttavia, respingono questa teoria, data la mancanza di affinità lessicali. Esistono tuttavia alcuni legami di lessico tra il giapponese e gruppi linguistici dell'Asia orientale come il tibeto-birmano e l'austroasiatico. La lingua parlata nelle isole Ryukyu è così simile al giapponese da poterne essere considerata una variante dialettale. Tra le molte varianti, la parlata colta di Tokyo è stata adottata come lingua standard.

Caratteristiche
Rispetto alle lingue indoeuropee, il giapponese sembra prediligere per certi aspetti un maggiore grado di voluta indeterminatezza, soprattutto riguardo alla definizione delle sensazioni visive: ad esempio, la parola aoi può significare di volta in volta "blu", "verde" o "pallido". Viceversa, si rivela minuzioso fino all'eccesso per descrivere sensazioni di tipo uditivo o tattile: contiene infatti un gran numero di espressioni onomatopeiche e molte parole diverse per esprimere lievi differenze di suono o di percezione al tocco. Contiene, ad esempio, parole diverse per il rumore prodotto dagli zoccoli e quello fatto da scarpe con suola di legno, come pure per lo scroscio della pioggia in sé o per il rumore prodotto dalla pioggia su superfici differenti.

Lessico
In origine il lessico del giapponese era estremamente limitato, finché, a partire dal III secolo d.C., un gran numero di prestiti dal cinese entrò a far parte della lingua. Il numero di parole di origine cinese presenti nel giapponese moderno è molto più grande di quello delle parole native giapponesi. All'epoca dell'adozione queste parole conservarono la pronuncia originale cinese, che solo in seguito subì notevoli modifiche. I caratteri cinesi svolgono un ruolo significativo nella formazione delle parole del giapponese scritto, e ciò influenza inevitabilmente il linguaggio parlato. Ogni carattere ha di norma due o più possibili letture. Negli ultimi cento anni il giapponese ha preso a prestito molti vocaboli dalle lingue europee, in particolare dall'inglese. Questo processo ha subito una forte accelerazione dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Fonologia
La lingua giapponese ha una fonologia semplice, che consiste di sole cinque vocali (traslitterate come a, i, u, e, o e pronunciate più o meno come in italiano) e di diciannove consonanti (traslitterate k, s, sh, t, ch, ts, n, h, f, m, y, r, w, g, z, j, d, b, e p). Le consonanti vengono pronunciate al modo inglese, ma la r ha un suono incerto intermedio tra la r e la l italiane. In corpo di parola la g è spesso nasalizzata, in modo simile al nesso ng nella parola inglese sing. Ciò è particolarmente avvertibile nella parlata colta di Tokyo. Sia le vocali sia le consonanti possono essere lunghe o brevi. Alcune sillabe vengono enfatizzate con una differenza di intonazione, ma la lingua non possiede un vero e proprio accento tonico.

Grammatica
Il verbo giapponese non ha numero né persona e neppure tempo, almeno secondo il significato che questo termine ha in relazione alle lingue indoeuropee, ma indica con precisione se un'azione è conclusa o meno. Esistono tre coniugazioni, ognuna con cinque forme di base: la negativa, la continuativa, la conclusiva, la condizionale e l'imperativa.
I sostantivi giapponesi non hanno genere e numero. Per quanto non esistano in giapponese articoli o preposizioni, i nomi sono governati da postposizioni (un gruppo relativamente piccolo di parole che corrispondono per funzione alle desinenze dei casi o alle preposizioni nelle lingue indoeuropee) che direttamente li seguono. Un esempio è la parola no ("di") nella frase mizu no oto, che significa "rumore d’acqua", anche se traducendo parola per parola si leggerebbe "acqua di rumore".
Esistono molti pronomi, ma vengono usati raramente. Gli aggettivi funzionano in buona misura come verbi, in quanto contengono la copula e tramite differenze di flessione indicano uno stato presente o concluso, oppure hanno funzione connettiva. Ad esempio, shiroi significa "è bianco", shirokatta significa "era bianco" (stato concluso) e shirokute significa "è bianco e...". Alcuni sostantivi sono pure usati per modificare altri sostantivi al modo degli aggettivi.
Il tratto linguistico che probabilmente più distingue la lingua giapponese da tutte le altre è il gran numero di parole, prefissi e suffissi di cortesia o che servono a onorare l'interlocutore o a esprimere deferenza. Solo il coreano e il giavanese contengono un paragonabile numero di parole indicanti lo status delle persone.

Tradizione scritta
Non vi sono prove che l'antico giapponese possedesse un proprio sistema di scrittura. Circa 1500 anni fa, il metodo di scrittura per ideogrammi fu importato in Giappone da cinesi e coreani. Dato che ogni ideogramma cinese rappresenta una parola, sarebbe stato difficile usare questi caratteri per comporre le parole modificate nella lingua giapponese (a ciò meglio si sarebbe adattato un sistema fonetico, e non ideografico). Per un lungo periodo i giapponesi seguirono comunque il metodo cinese, ma nell'VIII secolo d.C. essi avevano ormai cominciato a usare i caratteri cinesi con funzione fonetica: ognuno di essi rappresentava dunque una sillaba.
Nel IX secolo dai caratteri cinesi si ricavarono i due sillabari kana (il termine kana denota un simbolo che rappresenta una sillaba), noti come katakana e hiragana, nei quali ogni sillaba è rappresentata da un simbolo derivato da un più complesso carattere cinese, adottato in tutto o in parte, oppure modificato. Ad esempio, il carattere 宇 diede origine al katakana ウ e all'hiragana う.
Gradualmente si impose un sistema ibrido, nel quale i caratteri cinesi venivano usati quando possibile, mentre i kana – di solito gli hiragana – erano usati per rappresentare le postposizioni e i modificatori. Più tardi i katakana furono usati soprattutto per scrivere parole occidentali importate, nei telegrammi e occasionalmente in documenti ufficiali. Poco dopo la seconda guerra mondiale il numero di caratteri cinesi d’uso comune fu ridotto a 1850 (più tardi riportato a 2000), con una notevole semplificazione per la lingua scritta.



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